martedì 26 luglio 2011

LA VIA DEMOCRATICA ALLA MAZZETTA



ECCO IL TANGENTIFICIO ROSSO



Dall’inchiesta sull’ex braccio destro di Bersani emerge il «sistema della caparra»: soldi veri per finte compravendite. Nuovi dubbi sull’affare Serravalle. E Penati lascia la carica (ma non lo stipendio). Altro che superiorità morale, la sinistra è solo più brava a non farsi beccare con le mani nella marmellata!


Di Maurizio Belpietro


Finalmente ho capito in che cosa consiste la diversità dei dirigenti del Partito democratico rispetto ai loro colleghi del Popolo della libertà.
La differenza non sta nella superiorità morale come per lungo tempo ci hanno fatto credere, ma in quella tecnica.
Gli esponenti del PD sono bravi a non farsi beccare: le tangenti non se le mettono in tasca come  dei rubagalline, ficcandole dentro un busta di carta o un pacchetto di sigarette.

Né se le fanno consegnare sotto forma di Ferrari o orologi di lusso come parrebbe abbiano fatto alcuni gaglio del centrodestra.
No, i compagni sono molto più professionali di quelli del PDL e applicano procedure rigorose e codificate.  
Parola di Di Pietro, siamo fronte all’industrializzazione della mazzetta.
Diciamo che a sinistra hanno scoperto il modo per incassare senza rischiare.
Un’operazione pulita e facile come bere un bicchiere d’acqua, senza soldi in nero o valigette passate in un parcheggio o nell’ombra di un sotto-scala.

Loro usano gli assegni e i bonifici:
la particolarità è che pur lasciando traccia come qualsiasi operazione bancaria, le loro sono perfettamente legali.
Tutto alla luce del sole e per questo probabilmente passato fino a ieri inosservato sotto gli occhi degli inquirenti.

Bastava mettersi d’accordo per una finta compravendita immobiliare, intascando una caparra vera che poi   si sarebbe potuta trattenere quando il finto acquirente avesse rinunciato all’acquisto.
Così sarebbe andata tra Bruno Binasco, il manager di Marcellino Gavio già indagato per tangenti dal Pool di Mani pulite, e Piero Di Caterina, uno degli imprenditori che sarebbero stati indicati da Filippo Penati, ex capo gabinetto di Pier Luigi Bersani.
In tal modo sarebbero passati di mano 2 milioni di euro.

Che palazzi e appartamenti siano il sistema con cui dalle parti dell’ex partito comunista fanno girare i soldi non è una novità.
Già all’epoca di Mani pulite fu una compravendita a salvare il Pds, consentendogli di scaricare ogni colpa sul compagno G, Primo Greganti, il tangentista rosso beccato con un miliardo di lire nella ventiquattrore.

Ma l’espediente della caparra è un di più, un meccanismo raffinato in grado di togliere da ogni imbarazzo.
I compagni l’avrebbero sperimentato per la prima volta proprio con Bruno Binasco anni fa.
E poi l’avrebbero messo in pratica con altri.
Già sul finire dei Novanta infatti c’era chi raccontava di un modo perfetto per finanziare il partito, ma a quanto pare gli investigatori non si stupirono troppo per quelle penali iscritte a bilancio e nessuno le chiamò mai con il loro vero nome: tangenti.

Oltre all’ingegnoso meccanismo del mancato rogito immobiliare, di trucchi per nascondere i movimenti di denaro illeciti secondo i giudici
potrebbero però essercene altri.
I magistrati sospettano di altre operazioni finanziarie.
Tipo quella in cui i protagonisti furono sempre l’ex presidente della Provincia Penati e Marcellino Gavio, proprietario di una quota della Serravalle.
L giunta guidata dall’esponente del Pd inspiegabilmente nel 2004 pagò le azioni della società proprietaria delle tangenziali di Milano e dell’autostrada per Genova quasi 9 euro, nonostante Gavio le avesse comprate un anno e mezzo prima  a meno di tre.

L’imprenditore grazie a quel colpo incassò una plusvalenza di 176 milioni di euro, parte della quale sarebbe stata poi investita nella Banca nazionale del lavoro, l’istituto che il banchiere rosso Giovanni Consorte si apprestava a scalare con la benedizione e l’entusiasmo del Pd.

Come mai Penati versò una cifra così elevata per la quota della Serravalle, nonostante Gavio fosse disposto a cederla alla metà?
E a che cosa gli servì la maggioranza della società dato che l’avrebbe avuta ugualmente anche senza spendere, a patto che si accordasse con il Comune di Milano?

Le domande noi e altri ce le eravamo fatte sin da quando la strana operazione fu resa nota.
Per via dell’investimento la Provincia rimase a secco di liquidi per un bel po’ e nessuno che se ne intendesse si convinse che quello fosse un buon affare.
Di certo non per l’ente pubblico, semmai per Gavio.
Ma i pm, che pure furono coinvolti dal sindaco di Milano Albertini, lasciarono cadere la cosa.
A distanza di anni la storia riemerge, nelle mani però di un’altra procura, non più di rito ambrosiano.

Vedremo se stavolta i giudici riusciranno a capire le ragioni dello strano acquisto.
Soprattutto vedremo se ce la faranno a provare che oltre a quella tecnica il Pd e i suoi discepoli non ha nessun’altra superiorità.

Ps. Qualcuno ha già cominciato a chiederselo: ma perché in tutta fretta, nel novembre scorso, Filippo Penati si dimise da capo della segreteria di Bersani?
Difficile credere che lo abbia fatto solo per la sconfitta del suo candidato alle primarie milanesi. Forse aveva già annusato l’aria.
Sta di fatto che a Milano il Pd già se ne lava le mani, addossando le eventuali responsabilità tutte sulle spalle dell’ex presidente della provincia.
Dal compagno G. al compagno P.?

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