giovedì 28 luglio 2011

ANCHE DI PIETRO CONTRO IL PD: "NOMINE DA ANNULLARE"

 
 
Il leader di Italia dei Valori attacca il "pizzo" democratico: "E' un'anomalia, come quella del caso Penati.Così si scelgono manager fedeli, non competenti. Dai nostri eletti non un solo euro al partito nazionale" 
 
                                                 di Franco Bechis
 

 
Il pizzo sul nominato previsto da molti regolamenti finanziari del Pd ha lasciato di stucco anche uno che della politica pensava di avere visto tutto, da una parte e dall’altra della barricata. Antonio Di Pietro, leader dell’Italia dei Valori, cerca a suo modo un pizzico di prudenza, per evitare il frontale con Pier Luigi Bersani. Preferisce dire che lui una cosa così non l’avrebbe mai fatta. E tenerla sulle generali: questa è una stortura di un sistema non regolato. Poi però pensa al caso Milano del Pd e qualche frecciatina scappa...

Antonio Di Pietro, che effetto le fanno i regolamenti finanziari del Pd che impongono una sorta di pizzo per il partito ai nominati nei cda pubblici?
«Prima devo dire come faccio io. Nell’Italia dei valori i consiglieri comunali di Torino versano una quota alla sezione torinese del partito. I parlamentari eletti in Piemonte la versano alla struttura regionale del partito. E così ovunque in Italia. Nessuna quota invece va al partito nazionale. Ma questo vale solo per gli eletti. Da consiglieri di amministrazione, consulenti, membri di enti pubblici fossero anche di area dell’Italia dei valori invece non prendiamo un centesimo, naturalmente».
Naturalmente lo dice lei. Bersani deve essere di altra idea, visto che il suo partito varia le percentuali, ma riscuote anche dai manager.

«Dico naturalmente perché non si può creare un rapporto organico fra il partito e società private, enti pubblici e istituzioni. È evidente che imporre il versamento di una quota dello stipendio al partito oltre ad essere poco trasparente, manderebbe a farsi benedire l’autonomia dei manager nominati. Finirebbe con il crearsi un rapporto organico partito-manager e consigli di amministrazione nominati, che sarebbe del tutto deleterio. Solo agli eletti può essere chiesto! Io verso 1.500 euro al mese all’Italia dei valori, perché sono il presidente. Un consigliere comunale nostro invece versa 50 euro. Ma per gli eletti il rapporto con il partito è ovviamente diverso...».
Lei da pm si scandalizzava per la lottizzazione politica. Ora i regolamenti del Pd addirittura la santificano, stabilendone anche il prezzo...

«Qui c’è un primo problema, ed è quello della cifra che viene versata al partito. Bisogna vedere se supera i limiti di legge ed è stata dichiarata alla tesoreria della Camera. E poi è evidente che con questo metodo quando si deve scegliere il consigliere di amministrazione della municipalizzata, il criterio base diventa: quanto può rendere questo qui al partito? Allora il criterio diventa la fedeltà, non la capacità. E quelle nomine valgono poco o nulla».
Beh, a dire il vero basta la fedeltà del consigliere di amministrazione nel versare al partito le quote richieste...

«Ma quel patto stabilito dai regolamenti giuridicamente non vale nulla! Non è che se io consigliere non verso la quota al partito, tu puoi trascinarmi in tribunale. Quell’impegno non ha valore davanti alla giustizia ordinaria. Quindi è anche peggio: al momento della nomina io sceglierò solo chi mi dà garanzie di fedeltà e quindi verserà una parte del suo stipendio al partito. Ci vuole un rapporto fiduciario di ferro, e tutto diventa poco trasparente. È certo un’anomalia. E non è l’unica in queste ore...».

A cosa si riferisce?
«Alla storia milanese che ha coinvolto il Pd e Filippo Penati. Lì c’è una anomalia evidente: è l’unico caso in un partito in cui una struttura territoriale finanzia quella nazionale. Tutti gli altri mandano dal centro soldi al territorio, non viceversa! Anche noi: a livello centrale prendiamo il finanziamento pubblico dallo Stato e lo giriamo al territorio. Per forza: le strutture locali non hanno soldi pubblici. Possono prendere solo dai privati, cosa che io ho vietato nell’Italia dei valori (restituii al mittente anche un finanziamento della società Autostrade) e che evidentemente il Pd non vieta. Sa, io non conosco benefattori che finanzino la politica senza avere nulla in cambio. Magari sono anche finanziamenti regolari, ma insomma io non conosco imprenditori che versino soldi perché si sono convertiti all’islamismo, al bersanismo o al leghismo. È una bella ipocrisia».

Ah sì, come chiamare rimborso elettorale quello che lei forse per lapsus ha definito “finanziamento pubblico dei partiti”…
«Sì, è una ipocrisia. Come quella di dire che basta certificare i bilanci e tutto sarebbe regolare. I bilanci dei partiti non sono consolidati, non uniscono conti nazionali a quelli locali e quindi non è certificabile quasi nulla. In più, sa cosa ne sa un certificatore se quella che lei definisce “spesa politica” lo è davvero o no? Bisognerebbe attuare la Costituzione e dare una personalità giuridica compiuta ai partiti. Oggi si fa come si vuole, ognuno interpreta a modo suo. Anche io ho sbagliato all’inizio, come voi stessi avete scritto. Di fatto ognuno ha fatto come voleva. E l’unico modo per evitare ipocrisie e scarsa trasparenza come quella che stiamo vedendo è una regola uguale per tutti».

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