giovedì 20 ottobre 2011

Il falso mito della piazza e la sinistra trendy






È inutile girarci intorno, c’è una parte dell’Italia (c’è sempre stata) a cui la piazza, qualunque piazza, piace moltis

simo. E che non va molto per il sottile sulla qualità dei propri «piazzisti». I fatti di Roma, dicono costoro, sono stati un
a tragedia. Non tanto per le violenze che hanno provocato, ma per il fatto che non siano emerse le proposte «ragionevoli
» degli indignati.


Lasciamo per un attimo perdere le proposte, anche se ilSole24ore le ha, in una bella pagina, esaminate nel dettaglio e implicitamente giudicate per quello che sono: demagogiche e irrealizzabili anche se affrontano temi veri. Ma, dicevamo, l’attrazione per la piazza è fenomenale. Chiunque vada in piazza per il solo fatto di esserci sembra avere ragione (virus che a ritmi alterni infetta anche il centrodestra).

La piazza è partecipazione, è democrazia, è giovane e sana. Nulla di più sbagliato. La piazza spesso e volentieri è ciò che è avvenuto a Roma. Gli scontri sono solo una tecnicalità: in funzione delle formazioni che scendono per strada e del grado di tenuta psicologica della forza pubblica (dopo Genova, guai a reagire). Ciò non vuol dire ovviamente che la piazza sia di per sé da bandire, ma semplicemente conviene dire, con Elias Canetti, che la massa in piazza è davvero una brutta bestia. Non è certo il luogo migliore dove ragionare.

La piazza diventa spesso lo sfogo delle frustrazioni (anche legittime) di chi non governa. Una piazza contro un esecutivo eletto democraticamente non può certamente considerarsi più democratica di questo. Una piazza in una dittatura, può definirsi, forse, più democratica. Ma non è detto. In Italia la piazza fa impazzire, storicamente, la sinistra. È come un riflesso pavloviano: qualcosa non va, si scenda in piazza. È un atto di forza, non necessariamente violento. Ma sempre e comunque un atto di forza e non di ragione. La piazza come sola testimonianza non lega, non attrae, non ha successo.

Il New Yorker qualche mese fa si è interrogato sulle recenti convocazioni in piazza nell’epoca del web. E ha concluso sostenendo esattamente questo: internet non aiuta affatto a creare la grande piazza, nonostante tutti lo credano, ma è la forza della sfida e della rivolta che la genera a determinare il suo eventuale successo. Se così stanno le cose, non si riesce a capire a sinistra lo stupore e l’indignazione generato dagli scontri di Roma. Da quasi un anno assistiamo a una manifestazione unica, senza soluzione di continuità. C’è forse differenza tra gli scontri dei Viola, dei No Tav, degli studenti davanti al Parlamento degli ultimi mesi rispetto a quelli di Roma? Sì, ma solo nell’intensità.

La nostra opinione pubblica è stata rimbambita di cliché sulle piazze arabe, evocandone la loro trasposizione dalle nostre parti. Ma davvero pensiamo che la rivoluzione che ha sostituito una giunta militare con un’altra in Egitto, possa rappresentare per noi un simbolo? Come fa Antonio Di Pietro a dire allo stesso tempo che il premier è un dittatore alla Videla, che se continua così «ci scappa il morto» e poi chiedere nuove inutili e liberticide leggi speciali contro i violenti. Non crede l’onorevole Di Pietro che non si possano giocare più parti in commedia? Solleticare i facinorosi, dichiarando l’indichiarabile, e poi adottare una linea di fermezza da anni ’70? Dove sono finiti i fan della rivoluzione egiziana oggi? E dove finiranno quelli della Libia Liberata? E quanti ne avete visti lottare contro la Siria messa a fuoco dal suo dittatore?

La piazza è diventata un’arma non convenzionale per combattere il governo Berlusconi. Financo un’opera decisa da tutti, come quella della Val di Susa, e approvata a destra e a manca, è diventata testimone di una lotta contro la dittatura berlusconiana. Che taluni (vedasi Buttiglione) vorrebbero in uscita grazie a una sorta di salvacondotto: stile Sudamerica. Non prendiamoci per i fondelli: non si può essere rivoluzionari di sera e alla mattina piangere i violenti che hanno rovinato il quadretto.

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