venerdì 2 settembre 2011

In Italia siamo bravi a stringere soltanto la cinghia altrui, mentre le nostre sono intoccabili


di Vittorio Feltri


Mentre scrivo questo articolo infuria la polemica politica sulle disavventure finanziarie nazionali e internazionali.
E c’è solo da ringraziare il Padreterno che gli italiani in questo periodo chiudono bottega e vanno in vacanza fingendo di dimenticare ogni grana.


Vanno in vacanza anche i signori dell’informazione tv, cosicché le risse dei talk show, che per il resto dell’anno fanno salire la pressione arteriosa ai cittadini alimentandone i malumori, sono sospese: altrimenti il governo non avrebbe alcuna possibilità di approvare d’urgenza i provvedimenti giudicati indispensabili per scongiurare il fallimento dello Stato.

Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti approfittino di questo momento per limare la spesa pubblica: la gente quando è in villeggiatura è disponibile, accetta tutto, sopporta. Ministri e Parlamento lavorino e preparino il calice amaro che in autunno dovremo bere tutti per non affogare.
Non perdano l’occasione per fare ciò che è obbligatorio fare.
Rimandare a settembre sarebbe esiziale.
Ora o mai più.

Il premier e la sua squadra sanno benissimo che nel nostro Paese o le riforme si introducono a «tradimento», col pretesto dell’emergenza e col favore della stagione riservata agli ozi, o non passano.
Perché nessuno le vuole, e i primi a opporvisi sono i riformisti. I quali sono convinti che si debba cambiare, purché non si riducano i loro privilegi.
Tagliate, tagliate ciò che vi garba, dicono in coro gli italiani, ma giù le mani dalla categoria cui appartengo io. Lo si è constatato recentemente: le corporazioni su cui si regge l’organizzazione del lavoro sono dighe contro ogni tipo di novità che minacci le rendite di posizione.

Quando Tremonti ha inserito nella manovra l’abolizione dell’ordine professionale degli avvocati, apriti cielo, la casta forense, ben rappresentata alla Camera e al Senato, sia nella maggioranza sia nell’opposizione, è insorta e ha piazzato un ricatto: se ci fate questo torto, noi principi e principini del foro bocciamo la Legge finanziaria e l’esecutivo va a casa.

Non parliamo dei giornalisti. I quali sono più decisi a difendere l’Albo che non l’onore. Liberalizzare?
Certamente.
Bisogna farlo a tutti i costi.
Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo la volontà ferrea delle singole associazioni settoriali di proteggere il loro orticello.

I governi che si sono succeduti in mezzo secolo hanno tentato di demolire il castello incantato delle professioni, ma non ci sono riusciti.
Troppo deboli?
No.
Troppo forti le corporazioni.
Ciascuna di esse al tavolo delle trattative fa pesare i voti di cui dispone.
Risultato. Il negoziato si interrompe e si rimane allo status quo.

Prevalgono sempre gli interessi particolari, in qualsiasi campo.
Da decenni, da quando furono istituite le regioni, si predica che vanno abolite le province allo scopo di eliminare doppioni amministrativi e conflitti di competenze.

Il Cavaliere nel 2008 era deciso: le sopprimo, dichiarò in tv.
Ma dovette subito rimangiarsi il proposito per cause di forza maggiore.
Quali?
La Lega, avendone conquistate tredici, ama le province più di se stessa: se solo gliene sfili una, esce dalla maggioranza e casca tutto.
E che dire delle pensioni di reversibilità, di anzianità e di invalidità?

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