giovedì 8 settembre 2011

Dall'emergenza alla riforma liberale

 
di Arturo Diaconale
 
Ha un solo padre la manovra che il Parlamento si accinge ad approvare in tutta fretta per evitare nuove ondate speculative sul nostro paese.
Questo padre si chiama “emergenza” imposta da un debito pubblico esorbitante, da una crescita inesistente e dal peso di uno stato burocratico-assistenziale divenuto insopportabile.
Non è corretto, allora, sostenere come hanno fatto sinistre e sindacati che il “padre” della manovra sia stato il governo. I
n realtà qualsiasi esecutivo di qualunque colore si sarebbe comportato come ha fatto quello guidato da Silvio Berlusconi.
Magari con qualche minima differenza a seconda della impostazione culturale dominante all'interno della coalizione.

Un governo di sinistra, ad esempio, avrebbe sicuramente giocato la carta della patrimoniale, sia pure nascosta dalla formula del contributo di solidarietà.
E un governo tecnico, così come fece quello di Lamberto Dini nel '95, insistito sulla riforma delle pensioni.
Ma, nella sostanza, nessuno avrebbe compiuto atti particolarmente rilevanti.

E si sarebbe attenuto, in linea di massima e come ha fatto l'esecutivo di centro destra, alle indicazioni ed alle sollecitazioni provenienti da Bruxelles e dalla Bce.
Una considerazione del genere non costituisce affatto una attenuante, una giustificazione, una valutazione positiva per l'operato del governo.

E' solo un dato di fatto.
Che, però, comporta una conseguenza impegnativa per lo stesso governo.
Quella secondo cui fatta la manovra per l'emergenza voluta dai mercati e dalla Bce, sollecitata da Napolitano ed imposta dal debito pubblico, il centro destra, se vuole avere una sola speranza di non uscire distrutto dalle prossime elezioni politiche deve affrettarsi a preparare una manovra non più congiunturale ma strutturale.

Il centro destra, in altri termini, se non vuole arrendersi prima ancora di combattere, deve avere la forza e la capacità di marcare in maniera netta e trasparente la propria differenza dalla sinistra statalista o dai nostalgici del consociativismo.

E raccogliere la richiesta di cambiamento che proviene dalla parte sana della società civile dimostrando con le idee e con i progetti di essere in grado ancora di disegnare e gestire l'innovazione nel nostro paese.
E' fin troppo evidente che questa manovra strutturale non si potrà esaurire con la proposta di modificare la Costituzione inserendo le norme sull'abolizione delle province e quella dell'obbligo del pareggio di bilancio.

Queste misure fanno parte del pacchetto dell'emergenza e non hanno alcuna capacità distintiva e caratterizzante rispetto a qualsiasi altro esecutivo.
Ci vuole molto di più.
Un di più che in altri tempi si sarebbe chiamato “rivoluzione liberale”.
Ma che adesso, vista la scarsa fortuna avuta da questo termine, si potrebbe chiamare in maniera meno alta e più concreta come la grande riforma liberale dello stato burocratico-assistenziale.

Una riforma che oltre al taglio delle province dovrebbe prevedere la riduzione dei centri di spesa incontrollati delle regioni, la ridefinizione di tutti gli enti intermedi con l'eliminazione di quelli inutili (qualcuno sa dire, ad esempio, a che servano ancora le prefetture d'impianto napoleonico?), un più corretto equilibrio tra aree metropolitane e governi regionali, una serie di autentiche liberalizzazioni, le privatizzazioni non solo dei grandi enti ma soprattutto delle municipalizzate.

Oltre, naturalmente, le riforme del fisco, del lavoro, delle pensioni, della giustizia, del sistema elettorale. Insomma, se il centro destra vuole sopravvivere all'emergenza deve uscire dall'emergenza stessa.
E lo può fare solo dicendo e facendo qualcosa di autenticamente liberale!
Tesa non solo a ridurre il debito pubblico ed a rilanciare la crescita ma anche e soprattutto a ridisegnare completamente il nuovo modello di stato in cui gli italiani dovrebbero vivere in serenità e benessere nel primo secolo del terzo millennio.

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