venerdì 2 settembre 2011

Il cinghiale Bersani

                                                              CASO PENATI


di Arturo Diaconale


E’già, non ci sono più i Greganti di una volta!
Quei compagni che non esitavano neppure un istante ad addossarsi qualsiasi nefandezza pur di salvare il grande e glorioso Partito Comunista Italiano, avanguardia della classe operaia e portatore indiscusso ed indiscutibile della verità e della virtù all’interno della società nazionale!

Adesso anche i dirigenti, quelli che hanno alle spalle anni ed anni di car-riera politica con la casacca del Pci-Pds-Ds-Pd, rifiutano di svolgere il ruolo del capro espiatorio che sacrifica se stesso per il bene del partito!

Rivendicano il diritto di salvare prima il proprio onore personale e la serenità della propria famiglia e poi quello dell’organismo collettivo in cui ha militato fino ad assumere posizioni di vertice.
Ed ammoniscono a non ti-rare troppo la corda quanti intima-no loro di immolarsi immediatamen-te e senza esitazione alcuna per sal-vare dalla tempesta dell’inchiesta di Monza il gruppo dirigente del Pd di estrazione post-comunista e lo stesso segretario Pierluigi Bersani!

Il rifiuto di Filippo Penati di seguire l’esempio del “compagno G” segna, dunque, la fine di un’epoca .
Quella che nella tradizione comunista prevedeva la subordinazione totale ed assoluta dell’interesse dell’individuo a quello del Principe collettivo rappresentato dal partito.
E che è andata avanti per decine e decine di anni suscitando l’invidia perenne di quei partiti che, se avessero avuto militanti duri e puri come quelli comunisti e post-comunisti, sarebbero riusciti a sfuggire alla fine ingloriosa provocata da Tangentopoli.

Ma il rifiuto di Penati di rinunciare alle normali garanzie giuridiche personali per tranquillizzare quanti temono  per la sorte dell’attuale segreteria del Pd non costituisce solo un cambio di costume nella sinistra italiana.
Ma solleva un problema politico concreto ed immediato non solo dentro il partito di Bersani ma soprattutto dentro tutta la sinistra italiana e dell’intero schieramento d’opposizione.
La rivendicazione di Penati di difendere prioritariamente il proprio onore diventa automaticamente una spada di Damocle posta sulle testa di Bersani e del vecchio gruppo dirigente del Pd di derivazione post-comunista.

Può essere che questa spada cali come una mannaia sopra il segretario attuale e quelli che lo hanno preceduto.
E può essere che questa spada rimanga per aria a lungo, magari per non colpire mai.
Sia nel primo caso che nel secondo (e forse il secondo è addirittura più gravido di conseguenze del primo), è fin troppo evidente che l’attuale vertice del Pd sia destinato a perdere credibilità, autorevolezza, capacità di guida politica.

Chi sarebbe mai disposto nella sinistra e nell’opposizione ad accettare la leadership di un personaggio o di un gruppo dirigente su cui grava il rischio di fare la fine dei leader e dei partiti democratici della Prima Repubblica?

Il più pronto, come al solito, ad approfittare dell’oggettivo indebolimento di Bersani  è stato Antonio Di Pietro.

Ma il segretario del Pd si illuderebbe se pensasse di dover fronteggiare solo l’offensiva dell’Italia dei Valori.
Niki Vendola ed il resto della sinistra sono pronti a seguire l’esempio dell’ex Pm di Mani Pulite. Così come quella parte del Terzo Polo che spera nella discesa in campo di Luca Cordero di Montezemolo e calcola che un Pd decapitato potrebbe più facilmente legarsi al carro del Presidente della Ferrari.

Per non parlare, infine, degli avversari interni.
A partire dai veltroniani e dai prodiani (non dice nulla l’improvvisa accelerazione di costoro sul referendum in favore del ritorno del Mattarellum?).
Fino avari rottamatori alla Matteo Renzi che sono pronti a sfruttare ogni occasione per tentare di liquidare il gruppo dirigente delle generazioni con più di quarant’anni..
Qualcuno dice che la vicenda ricorda la scena di caccia dei cani che si avventano sul cinghiale ferito.
Già, il cinghiale.
La storia si ripete.


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