giovedì 8 dicembre 2011

Solo una sana e consapevole crescita salva l’Europa dall’incubo del default


Verso un tranquillo weekend di paura a Bruxelles
L’agenzia cinese Dagong declassa l’Italia e il suo governo tecnico.
Le ragioni dei Mr. rating pechinesi (tra cui Prodi)

                di Elena Bonanni e Marco Valerio Lo Prete

Ieri è venuto dalla Cina il richiamo più deciso all’Italia affinché rimetta la crescita al centro della sua agenda politica. L’agenzia di rating Dagong, infatti, ha preceduto la triplice americana (Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch) e ha tolto il rating “A” al nostro paese, abbassando il merito di credito a “BBB”, segnalando così un maggiore rischio percepito dagli investitori. 

Tra i quattro motivi del declassamento, gli analisti cinesi pongono al primo posto la debolezza politica dell’attuale governo tecnico, che difficilmente potrà portare a termine riforme impopolari facendo affidamento su un sostegno altalenante dei partiti politici. Pesano anche l’esposizione del sistema bancario verso paesi in difficoltà, gli obiettivi di rigore fiscale troppo ambiziosi e soprattutto la recessione. Dagong infatti stima per il 2012 una diminuzione del pil dello 0,7 per cento, peggiore delle più recenti stime governative.

Ieri d’altronde altri dati macroeconomici hanno confermato la tendenza depressiva: a ottobre, secondo l’Istat, la produzione industriale è scesa dello 0,8 per cento rispetto al mese precedente, e del 4,1 per cento rispetto allo scorso anno. Non solo: secondo Confindustria, il dato sarà negativo anche a novembre. Calo della produzione continuato, stretta al credito in corso, pressione fiscale in aumento: in Italia la via dello sviluppo diventa sempre più stretta, e allo stesso tempo diventa urgente percorrerla. I mercati ovviamente lo sanno, e tengono conto anche delle voci che minimizzano gli effetti del vertice europeo di oggi e domani: ieri Milano ha chiuso peggio delle altre Borse europee (meno 1,24 per cento), mentre lo spread Btp-Bund è risalito fino a 400 punti. A questo punto, farà sorridere meno il fatto che Dagong, agenzia della Repubblica popolare cinese, stigmatizzi “la scarsa apertura di mercato” dell’Italia. Anche perché gli analisti cinesi hanno già dimostrato negli ultimi mesi di vedere spesso lontano.

Nelle scorse settimane, ad esempio, le agenzie di rating americane hanno fatto trapelare l’intenzione di declassare la Francia, ma l’outsider cinese ci ha già pensato più di un anno fa. La spallata alle grasse triple A occidentali ha travolto anche la Germania, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, declassati poi più di una volta fino ad A, lo stesso livello della Russia. E da allora Dagong, 500 dipendenti e uffici in 28 città, non si è più fermata. Il minimo comun denominatore? I giudizi per i paesi sviluppati sono sistematicamente più severi di quelli assegnati da Moody’s, S&P’s e Fitch. Al contrario, i rating assegnati a numerose economie emergenti, tra cui la stessa Cina, sono spesso migliori. Si giustifica Dagong: “La creazione di ricchezza è fondamentale per supportare la capacità di finanziarsi e ripagare i debiti”. E il pil della Cina corre, al contrario di quello di Stati Uniti ed Europa.

L’obiettivo dichiarato è indebolire l’oligopolio anglosassone e diffondere metodi di rating più accurati. Ma, è chiaro, in bella vista ci sono gli interessi di un paese che grazie alle riserve valutarie è diventato il principale finanziatore e creditore degli States, se non mondiale. “Sono stati i rating alti assegnati in modo non appropriato dalle agenzie occidentali a spingere la Cina a effettuare investimenti rischiosi nel debito americano”, ha accusato il presidente e ceo Guan Jianzhong. Certo, Dagong non ha legami ufficiali con lo stato. Fondata nel 1994 è, almeno formalmente, una società al 100 per cento privata dopo che nel 1998 il governo ha ceduto le proprie quote. Oggi il 60 per cento è in mano al sessantenne Jianzhong, dal 1998 ai vertici della società dopo un passato da funzionario governativo. Ma al G20 di Toronto nel 2010 è lo stesso presidente della Repubblica popolare cinese, Hu Jintao, ad affermare: “Bisogna definire un nuovo sistema di rating obiettivo, equo e ragionevole”. Non a caso la presentazione del primo report di Dagong ebbe la portata di un evento di stato: vi parteciparono tra gli altri il ministro delle Finanze, l’Agenzia governativa di controllo e programmazione dell’economia cinese e la Banca centrale cinese. Ecco perché i suoi rating suscitano diffidenza e perplessità tra gli operatori internazionali. E negli Stati Uniti è battaglia, con la Sec che ha rifiutato la registrazione sul mercato americano.

Ma rispetto a un anno fa Dagong inizia a fare proseliti. In un recente report sulle Generali, il broker europeo Kepler la definisce “un’agenzia seria e credibile”. E ora, attorno ai rating pechinesi, si sta consolidando un network internazionale di società europee, americane e dei Brics per creare un’alternativa al monopolio delle tre sorelle, un’agenzia sovranazionale con sede a Francoforte. Della partita pare anche il fondo Mandarin, private equity legato a Intesa Sanpaolo e due banche governative cinesi. Dietro le quinte, secondo quanto ha scritto di recente il quotidiano China Daily, c’è come superconsulente Romano Prodi, reduce a settembre da un giro di incontri privati con le alte autorità cinesi, dove è ormai da tempo ben introdotto. Al lavoro però ci sarebbero anche altre figure politiche internazionali in una rete di relazioni con l’occidente su cui Dagong punta per attingere esperienza e credibilità.

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