venerdì 12 agosto 2011

Pensioni e giustizia


 
  
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Scritto da Davide Giacalone   
  

Ho 53 anni, ho cominciato a lavorare appena maggiorenne e, quindi, sono ad un passo dai 40 anni di contribuzione, ma non ho alcuna intenzione d’andare in pensione.
Non ho alcun privilegio, ma so benissimo che pensare di uscire dal mondo del lavoro a quest’età significa mettersi sulle spalle di quanti dovranno pagarmi la pagnotta, e lo trovo ingiusto.
Anche perché toccherebbe ai giovani, che una pensione non l’avranno mai.




Visto che le pensioni “vecchie” non sono legate ai contributi versati appare palese l’ingiustizia. E’ che i cinquantenni vivono problemi doppi, essendo divenuti troppo costosi come dipendenti e troppo carichi di dirtti come pensionandi. Ma proprio per questo si deve accedere ad un mercato in cui si possa essere pagati molto anche appena assunti, ventenni, mentre da noi si procede per aumenti nel tempo, creando le difficoltà che vediamo. Questo sistema dobbiamo cambiarlo, non approfittarne per ultimi.

Parlare di pensioni è difficile, diventa impossibile se le si considera solo sotto il profilo dei diritti acquisiti.
Se, invece, se ne discutesse in rapporto all’equità e alla giustizia, anche tenendo conto degli effetti socialmente distorcenti che producono, sarebbe meglio.
In tema di pensioni le manovre governative (di questo e dei governi precedenti) sono state concepite avendo in mente solo problemi contabili.
Se si avesse più lucidità e coraggio si potrebbe fare il bene risparmiando molto.

Faccio due esempi: la reversibilità e l’età pensionabile.
Quando un coniuge tira le cuoia (ed è assai più probabile che sia il marito) l’altro eredita la reversibilità, ovvero gran parte della pensione.
Trovo che sia sbagliato.
Solo a dirlo, però, saltano i nervi a sindacati e forze politiche d’ispirazione cattolica e di sinistra (quasi tutti, insomma).
Nessuno di loro ricorda a chi è venuta questa brillante idea: Benito Mussolini.

La ragione positiva della reversibilità è la seguente: è vero che solo un coniuge (di solito il marito) ha lavorato, ma la moglie ha provveduto alla casa e accudito i pargoli, contribuendo alla ricchezza familiare, sicché ha diritto anche lei alla sua quota di sostentamento a vita.
Ragionevole.

Ma non troppo.
I coniugi possono mettersi d’accordo, fra di loro, su come costruire meglio la loro felicità e ricchezza, ma che c’entra la collettività e perché deve subirne i costi?
Quello schema, poi, aveva un senso quando la famiglia era una, ora possono essere diverse oppure non essere mai nate, grazie a divorzi e convivenze.
Questa roba, inoltre, fotografa un’inferiorità civile delle donne e ne incentiva la lontananza dal mercato del lavoro.

Cosa succede se una persona di 25 anni ne sposa una di 85, già in pensione? Incasserà per una vita, alle spalle nostre.
Qui non si tratta di fare i moralisti e prendersela con i matrimoni fra vecchietti e poppute biondone (che il cielo li abbia in gloria, entrambe), ma di stabilire che sono affari loro, non nostri.
Rimedio: si cancella questo costo, si fa calare la pressione contributiva sui lavoratori e si lasciano loro le risorse per potere versare, ove lo desiderino, i risparmi a futuro sostentamento di sé e del coniuge che sopravviverà.
Ciascuno sarà libero di scegliere, senza avere sul groppone le volontà e i vedovi di altri.
Rimedio intermedio: almeno si parametri il lascito agli anni effettivi di matrimonio.

Anche sul fronte dell’età le donne sono considerate diverse dagli uomini, il che non è affatto coerente con una società di pari diritti (che comporta pari doveri).
Ed è assurdo dal punto di vista statistico: va in pensione prima chi campa più a lungo.
Con l’eccezione delle donne che lavorano per lo Stato, nel qual caso l’età è parificata in fretta, a causa di una sentenza europea.
Doppia ingiustizia.
Che senso ha fare leggi per agganciare le due età pensionabili a scadenza 2030, procedendo con passettini di settimane, per quindici anni?
Posto che i primi due si resta fermi. Una netta anticipazione non solo genera risparmi, ma porta giustizia ed equità.

Per essere giusti occorre essere credibili, per questo è necessario cominciare dalle pensioni di legislatori e governanti, piantandola con l’imbroglio di chiamarli “vitalizi”. Non è demagogia, ma realismo.
Mettano le mani anche su quelle già in pagamento, e vediamo quanti hanno la faccia tosta di fare ricorso.

 
 
 
 
 

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